“Man Ray. Forme di luce”, reportage dalla mostra milanese

MILANO – Una giornata uggiosa mi sembrava dovesse caratterizzare solamente alcune lande della “Brianza Saudita” di Casiraghy e delle ballate dei Mercanti di Liquori. Invece siamo fra la porta di via Paolo Sarpi e gli uscii delle mostre ospitate al Palazzo Reale. Con il primo luogo che mi ha regalato pioggia intermittente, spiedini cinesi e il riscontro che anche le matrone di Cina adesso si battono per agguantare clientela alla stregua dei butta-dentro dei Navigli o di quelli dei ristorantini romani e così via; mentre il secondo, accordato dalla tregua delle condizioni meteo avverse, ha tenuto il plumbeo del cielo in auge quando ho dovuto impattare con l’istallazione simbolo e logo dei giochi olimpici invernali del 2026. Quale strazio.

Ma almeno adesso ho le prove visive delle degenerazioni. Come ho dovuto imparare, questa volta da vicino vicino – ché in precedenza l’avevo agguantate passando con l’automobile – quanto può essere irritante la dimostrazione della fine del progresso illuminata dai “giardini verticali” carezzanti tutta la modernità dell’Aulenti. La terra è tutta occupata. Dai palazzi. Dalle costruzioni. Il verde va portato in alto, e sui palazzi certo. Mentre, certo, da Milano a Matera passando per Santarcangelo lo spettacolo del consumo dello spazio a vantaggio dell’urbanizzazione / modello sociale (ovvero cementificazione) deve continuare.

La visita alla mostra retrospettiva “Man Ray. Forme di luce”, a cura di Pierre-Yves Butzabach e Robert Rocca, che rimarrà aperta sino all’11 gennaio 2026, mi ha riconsegnato attimi di serenità. Premesso che Man Ray è davvero stato uno dei protagonisti dell’arte del Novecento, che fu veramente il primo ad utilizzare la fotografia come medium creativo, che ha lasciato opere imprescindibili e icone della memoria aggiornata alla bellezza dell’arte, ripetute tutte queste affermazioni più che scontate, il percorso di Butzabach e Rocca cosa mi ha lasciato dentro?

Ho provato a ragionarci.

Nel senso che per ogni stanza che ho allenato un sentimento. D’altronde il materiale utilizzato per ripercorrere le tappe biografiche insieme, certo, alla carriera dell’artista nato a Philadelphia nel 1890, fra stampe vintage, negativi collage e altri documenti aiuta.

Esempio. Procecendo dagli ambienti newyorkesi al rapporto con le avanguardie europee di Ray, in primi di sicuro quella surrealista e dadaista, l’approdo a Parigi e l’incontro trasformato in relazione amichevole con Duchamp. Insomma immagina subito il Duchamp che sta creando le sue opere geniali, e mi sento emozionato come un arstista io stesso alla prima prova, al tentativo di partenza. E ad un respiro da questo, gli scatti con soggetti che si chiameranno: Breton, Aragon, Éluard. E qui mi viene da piangere, commosso mentre nella testa mia circolano nuovamente i loro versi, quelle poesie che dalla giovinezza leggo.

Ed ecco l’amore e la tristezza. La gelosia. La passione negli occhi, nei corpi, nelle movenze fermate dall’obiettivo di Man Ray quando trasfigura le modelle Kiki de Montparnasse, al secolo Alice Prin, con la superba serie di foto “Noir et blanche” (a proposito di opere indimenticabili e iconiche), Nush, al secolo Maria Benz, Meret Oppenheim, Juliet Browner, Ady, al secolo Casimir Joseph Adrienne Fidelin.

Ed avevo quasi pianto già. Perché se fra i nudi stavo scegliendo il mio nuovo tatuaggio, venito dal brivido della sofferenza e dalle tentazioni di morte e passioni incivili del mio maestro civile e genialità: Jean Cocteau. La luce della pazzia creativa di Cocteau, ben prima delle ulteriori invenzioni di Man Ray, oltre le rayografie, oltre pure la serie di sculture per gli scacchi e l’inarrivabile descrizione in forma rifatta di New York, è qui tenuta in mano dal maestro della fotografia. Presa e consegnata a me. Ché: “Questa esposizione non è rivolta al grande pubblico, neppure a un piccolo numero abbastanza generoso da accettare le idee di un individuo. Non posso pensare né sentire per molti, e sono incapace di collaborare con più di un’altra sola persona. Questa esposizione è offerta da una persona a un’unica altra persona, a te che sei qui. Tutto il resto è una semplice questione di scambio”, come scrisse – in francese – lo stesso artista Ray alla mostra presentata al Musée d’art moderne di Parigi nel 1972.

La mostra milanese in corso si può visitare dal martedì alla domenica (ore 10.00-19.30), giovedì chisura alle 22.30, lunedì chiuso; biglietti: open 17 euro, intero 15 euro, ridotto da 13 a 10 euro.

Nunzio Festa

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