Campi di concentramento alleati in Romagna: intervista a Stefano Tonti

Il 15 maggio del 1945 gli inglesi dell’Ottava Armata crearono Enklave Rimini, un’area che, estendendosi da Cervia a Riccione, diventò il più grande campo di concentramento italiano di lunga durata degli sconfitti della II Guerra Mondiale: la zona conteneva 150.000 prigionieri. E nei due anni di attività del campo, al suo interno di prigionieri ne transitarono circa 300.000. In questa grande operazione furono requisiti 40 alberghi, 147 ville, 16 colonie e 5 fabbriche, oltre agli spazi comuni che riguardarono l’evacuazione della popolazione di 20 Comuni. Ognuno dei 16 campi di concentramento aveva un’area di circa 1 kmq delimitato da filo spinato, torrette di sorveglianza e prevedeva tende per gli alloggi degli internati.

Il campo di Rimini era denominato 370 Camp Central Mediterranean Area e aveva come responsabili della disciplina Karl Graffen e Fritz Polak. In quel periodo, una Rimini pesantemente colpita dai bombardamenti, divenne la più grande città di lingua tedesca fuori dai confini della Germania. E tra le spiagge di Cervia e Riccione sorse una società multiculturale nella quale si parlarono anche il russo, l’ungherese, l’ucraino, il danese, il polacco, il romeno, il fiammingo e, ovviamente, l’inglese e l’italiano.

Giovedì 15 maggio 2025 dalle ore 17, presso la Sala della Cineteca della Biblioteca “Gambalunga”, in occasione degli eventi per l’Ottantesimo anniversario della Liberazione, è stato presentato il podcast “Rimini in guerra 1943-1945, episodio n. 6 Enklave, la guerra continua”, a cura di Alessandro Agnoletti, con la collaborazione di Patrizia Dogliani e il contributo di Gianluca Calbucci. Logo e immagine grafica delle celebrazioni sono state realizzate dal designer Stefano Tonti. Logo e immagine grafica per le celebrazioni propongono approfondimenti storici ma anche incontri e riflessioni più ampie sulle dinamiche belliche e sul concetto di “urbicidio”. La città fu distrutta quasi completamente da 388 bombardamenti, il logo ne descrive il crollo e insieme la rinascita, la capacità che ebbe di rialzarsi e diventare la Rimini odierna. Le tre “I” del logo diventano anche elementi grafici che, con la loro diversa disposizione nei sei manifesti previsti, rappresentano i temi degli incontri.

Stefano Tonti, graphic designer, dopo anni passati a Barcellona e Milano risiede attualmente a Rimini, dove lavora principalmente per istituzioni ed eventi artistici e culturali. Suoi progetti sono stati selezionati per due edizioni del premio Compasso d’Oro e presentati in mostre, libri e riviste di settore in Italia e all’estero. È attualmente presidente del Collegio dei Probiviri di Aiap, Associazione italiana design della comunicazione visiva. Per capire meglio l’idea creata da Tonti, abbiamo posto alcuni quesiti all’artista romagnolo.

D: Lei pensa che le immagini possano fare più delle parole?

R: Certo la sintesi di un’immagine e ancora più di un simbolo grafico possono trasmettere con forza un’idea o un messaggio, però se si pensa a certe poesie di Ungaretti o agli haiku giapponesi, questo vale anche per la sintesi delle parole. Ma il linguaggio espressivo può anche essere trasversale, come nel progetto grafico che racconta la II guerra mondiale a Rimini: il nome stesso della città (quindi una parola) diventa anche “immagine” e racconta visivamente le proprie vicende storiche. La prima “I” Rimini è abbattuta, quasi orizzontale, a rappresentare le distruzioni della guerra; quella successiva si rialza faticosamente, mentre la terza si rimette finalmente in piedi. In questo percorso le tre lettere diventano sempre più leggibili come segni alfabetici, rappresentando la distruzione e il successivo recupero del logos della civiltà, negato da tutte le guerre. Anche le immagini dei sei manifesti sono state costruite con le tre “I”, che sono state ingrandite, riempite con testi e foto d’epoca e disposte per creare un segno, una sorta di graffito, attinente ogni volta al tema specifico dell’incontro. Una voluta ristrettezza di mezzi espressivi che richiama le privazioni e le regressioni del periodo bellico.

D: E che valori e principi possano essere trasferiti meglio attraverso il disegno o l’arte in genere?

Che possano essere trasferiti anche sul piano emotivo oltre che razionale, sicuramente sì. L’arte però interpella livelli profondi, mai del tutto univoci o razionali: è un mezzo potente ma anche ambiguo, com’è giusto che sia. Non la confonderei col visual design, di cui mi occupo, che è una disciplina certo creativa ma mirata a comunicare messaggi più definiti, che il designer non sceglie ma di cui si fa tramite.

D: Serve davvero ancora oggi sensibilizzare le persone a difendersi da certi rigurgiti di fascismo?

Assolutamente sì, perché le condizioni socioeconomiche attuali – pur declinate nella realtà globalizzata del terzo millennio – ricordano quelle che generarono cent’anni fa i totalitarismi europei: insicurezza, disorientamento, crisi economica e identitaria, ricerca di un capro espiatorio… il tutto amplificato oggi da una capillare disinformazione sui social. La cultura e la conoscenza del passato sono necessarie per leggere meglio il presente, e capire come il fascismo si possa ripresentare oggi sotto nuove forme, usando i mezzi della democraza per poi distruggerla, esattamente come fece allora. In tanti non conoscono la storia e non lo sanno.

D: A cos’altro sta lavorando in questo momento o cosa sta per promuovere di suoi lavori?

Proprio in questi giorni si sta definendo un progetto significativo per Rimini, in un ambito per me nuovo; se sarà realizzato credo ne parleremo presto ma per ora non posso dire altro. Tra le altre cose sto curando anche la comunicazione grafica di “A7B – Area 7 Bello”, un progetto di riqualificazione urbana per lo sviluppo di un distretto creativo dedicato ai vari linguaggi artistici, la partecipazione culturale e il tempo libero nell’area DLF-Cinema Settebello. Il 22 maggio poi parteciperò a “Design e Comunità”, un convegno promosso dal Corso di Design dell’Università di Ferrara insieme ad ADI Emilia-Romagna e ad AIAP, che intende approfondire il ruolo del design non solo nella comunicazione o nella facilitazione dei processi, ma anche come propulsore di soluzioni innovative che favoriscano la creazione di reti e di legami.

Nunzio Festa

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